Il terzo

Il terzo

Insieme ai viaggiatori di quel tramonto lontano, aspettava una borsa bruna al di qua della doppia linea blu, centrata fra le estremità di una panchina poco dietro. Restava distante a chiunque si fosse seduto, ma la tasca ciarliera lasciava visibili gli angoli di due o tre copertine patinate, che avevano l’aria di mettere a tacere dati scientifici e sintassi complicate, fin troppo per la curiosità degli sguardi sollevati dal display dei minuti e dei secondi. Si prestava così a mantenere vuoto lo spazio di quel ripiano grigio che le corrispondeva. “Prego” e la garbata impertinenza di quella paciosa compagna di viaggio veniva sollevata a due manici, quanto bastava per allinearla ai passi scuri di un passeggero di quei luoghi, puntuale inaspettato arrivo per la coincidenza del viaggio nel viaggio. Si manteneva di spalle quell’elegante misterobiondo, calcando di lentezza la sua passeggiata minima nei pressi della fermata, perché quel segreto malinconico in uno scialle argentato sentisse la prontezza di adagiarsi e il sollievo di qualche pensiero in meno. Continuava così la sua conversazione al telefono, con la nuca inclinata all’ascolto, mentre i capelli accuratamente lunghi la seguivano. Rise, prendendo quel posto e la matassa di viottoli ragionativi si assopiva.

Le aveva parlato con eccessiva immediatezza, consegnato un biglietto di fine corsa senza che questa fosse mai partita. La solita strada che ogni giorno sembrava nuova le divenne estranea, non le parlava più, tornava finta, per gli altri, insignificante. Gli occhi mentivano, insieme agli abbracci e le silenziose accortezze, ma il settimo cielo aveva chiuso i suoi cancelli, eterei e implacabili.

“Sto tornando”, con inflessione dolce. Un’altra voce, la regolarità, gli spazi di casa, il rientro atteso, l’insieme delle cose che si spostano e si ricompongono prima della notte o durante i suoi bui. È questa la vita. Nessuno ti ama con le mie parole.

Le immagini recuperate, fra le più belle e struggenti, contrastavano stabili la velocità della corsa, autonome dai riflessi esterni. Si appostavano silenziose insieme all’ultimo scorcio di panorama attraversato se l’uomo gentile faceva sentire di poco la sua voce o cambiava l’appoggio dei gomiti, riservate come lo sguardo discretamente attratto della signora. Ad ogni ritorno da quel fuori approssimativo e onnipresente, si facevano carico di un lacerato dentro, che non si decideva interamente a soffrire.

Non vederti più è come se levassero il Louvre da Parigi. Troverò le parole taciute nelle terre aride e negli abiti nuovi, negli inganni che fanno il gioco della verità, a tre quarti su ogni versante. Perché sposare la verità perdente sarebbe la felicità eccessiva.

Sui gradini, lasciando agli applausi di una sala elegante la commissione di coprire il rumore svelto di tacchi in fuga, il cielo era interrotto da due occhi rivolti verso l’alto, interrogativi, come quelli di un bambino. Sconfinati e inarrivabili, li guardava restando più in alto. E il mondo poteva anche dare le dimissioni e lasciarli fare.

Saliti come gli altri avevano cambiato posto rimanendo alle stesse distanze della prima scena. Un profilo elegante e alle spalle il suo racconto. Arrivato il momento di scendere, lei lasciava passare tutti, dal gradino del suo scomparto a quattro. Parlavano a due a due, avevano fretta, si muovevano prevedibilmente con lo sguardo in avanti. Le si avvicinò per rilanciare il vantaggio. “Prego” le disse, come per lasciarle tanto altro, due sillabe ferme scandite, per non lasciarla, riflesse nella ferma dolce luminosità del suo sguardo nocciola. Annuì, sorrise, disse sì. La città nuova cominciava dalla luna.

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Cristina Picciotto

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