La parete di Andersen
Dal divano di un noto bistrot di una città immersa nel Mediterraneo e nell’opinabile calcolo del tempo, cercava fuori per non guardare di fronte, con una accennata involontaria torsione del volto a sinistra, attratto dalla parete di vetro.
Separando, distingueva per sola trasparenza dai cardini un dentro e un fuori, il luogo dell’attesa e il transito del possibile. I gomiti allungati sul ripiano di legno di lì a poco colonia di altro vetro, colorato di bevande, rimbalzo di voci a più voci, mantenevano la direzione della fermezza, l’incanto di un tempo spostato, assorbito dal muro opaco, assorto nella sua ostinata inespressività. Sapeva di altre chiacchiere altri sguardi altri orari. Altro. La vetrina invece accendeva la controvetrina, un sorriso compiaciuto e già divertito sotto un cappello di morbido rosso, in un nonnulla inglobato dalla sala delle parole nuove, gentilezze e vassoi, rassicuranti di dolcezza su mani spalancate verso il soffitto.
Quel passaggio aveva fondato lo spazio immaginifico, ribaltato la visione, reso vetrina l’aria di dicembre e spettatori accomodati i sognatori disposti a rievocarla nell’indeterminato antico di una fiaba. Anche lì il freddo la festa la sera, estreme nei loro rigori di stagione e di genere, ma nessun sipario di cristallo che rendesse scenario irriflesso ogni suo sé. La sineddoche polare di un muro inattraversabile quanto la blindata felicità altrui faceva da riflesso immaginario alle allucinazioni di una venditrice di fiammiferi, senza clienti passanti, e figurarsi padre madre e il poco resto come le erano state costruite addosso dal climax della privazione di una scrittura dell’Ottocento.
Accesi dal suo spegnimento tre fiammiferi tentavano la riscossa estrema di far luce sui desideri irrinunciabili, il calore, il buono sulla tavola, la casa attorno, proiettati su quello schermo alla buona rubato alla notte. Quel pomeriggio, che non era ancora sera, la piccola fiammiferaia aveva portato candele sui tavoli, chiamati per numero come nomi unici. E riacceso la felicità, una volta scoperta la parete di Andersen.