Come la pioggia

Come la pioggia

Si chiamava.. beh, non ricordo il suo nome. Credo forse di non averlo mai saputo veramente. Perché lei non parlava quasi mai di sé, o delle sue cose, delle sue abitudini e della sua famiglia. Era una ragazza che viaggiava molto, e questo bastava sapere. Lei stessa talvolta non ricordava le sue origini e qualche cosa che sono riuscito a strapparle credo che l’abbia persino inventata. Occhi grandi, di un nero profondo, in tinta con i capelli. Naso piccolo, lineamenti raffinati e labbra non troppo carnose. Giuste per un bacio dolce sulla guancia. Profumava di campo. Si, profumava proprio di campo ora che ci penso. Quei campi sterminati che ti fanno venir voglia di correre e non fermarti più. Quei campi che ti ricordano le crostate di mele della nonna, i picnic e le giornate felici e spensierate con la famiglia. E forse per questo lei adorava gli spazi aperti, ottimi per delle corse fino all’ultimo respiro, fatte a tutte le ore del giorno. Perché forse correndo ricordava casa. O forse solo perché correndo si sentiva più libera, anche se ancora non ho capito da cosa.

Si era trasferita da poco nella nuova città. Eppure si sentiva come se vivesse in quel posto da sempre. Niente le era più segreto. Conosceva tutto e riusciva ad apprezzare tutto. Riusciva a cogliere qualsiasi espressione nei volti della gente e a farne una storia. Annotava tutto sul suo diario e scattava continuamente fotografie di viaggio. Fotografie di vita. Per questo si era trasferita per l’ennesima volta. Per questo si era trasferita in quella città incantevole che trasudava emozionanti avventure di vagabondi solitari. Di artisti di strada. Di gente comunemente bizzarra. Una città che riusciva a regalare sogni solamente vivendola una notte, solamente scendendo nelle affollatissime metropolitane. Perché anche là si incontrava la vita, anzi ti sbatteva continuamente addosso, prepotente, violenta, come una botta in faccia. E avresti trovato sicuramente il blues o il jazz di qualche sassofonista di talento che si cibava di musica rubata e qualche nota stonata. Avresti trovato il turista distratto e l’impiegato, attenti, che continuamente correvano perché inseguiti da un orario che mai avrebbero rispettato. Colori di negozi e luci di cartelloni pubblicitari. Parchi immensi. Allora prendeva la macchina fotografica e scattava. Immortalava qualsiasi cosa. Scattava una foto e ne faceva una storia. E sorrideva, soddisfatta del suo lavoro di ladra. Si, perché rubava momenti; continuamente rubava agli altri la bellezza dei loro momenti e per giustificarsi rispondeva sempre che non poteva lasciare andare tanta bellezza, e visto che i proprietari non reclamavano tutto questo, lo conservava lei nel suo zainetto. Nel suo diario, nei suoi scatti. E rubava la vita. Lei faceva questo da molto tempo ormai e le piaceva parecchio. Credo fosse il suo unico scopo. Ma nessuno sa il perché. Nessuno sa dove raccolga tutto questo materiale imbevuto di emozioni. Ogni tanto siede su una panchina o sulla spiaggia e guarda l’orizzonte, l’infinito. E respira forte; si lasca scorticare la pelle dal sole ad occhi chiusi. In quel momento confonde la sua vita e quella degli altri. E non sa scegliere. Perché per lei essere protagonisti o spettatori è la stessa cosa. Perché lei è diventata quasi la protagonista dei sogni altrui e la spettatrice dei propri. E nel frattempo si lascia andare all’infinito, nel frattempo diventava essa stessa un concentrato di bellezza rimasta impressa negli occhi di chi l’ha vista almeno una volta sorridere.

Nonostante le sue foto fossero piene di gente e nonostante le sue parole descrivessero spesso e volentieri paesaggi ricchi di vita pulsante, percepivo solitudine. E ogni volta che la guardavo mi sentivo improvvisamente anche io solo: io e lei, da soli. Anche se non credo si sia mai accorta dei miei occhi indiscreti; troppo distratta per accorgersene. Troppo distratta per notare una presenza come la mia. La prima volta la vidi seduta ad un caffè, infreddolita perché fuori pioveva a dirotto. La sua goffaggine mi aveva subito colpito perché si muoveva calpestando tutto e tutti. E chi non voleva accorgersi di lei perché troppo preso dalla propria vita, non poteva farne a meno perché era una grande forza della natura. Quel giorno ruppe una tazza facendola cadere per terra e tutti si girarono a guardarla. Allora con fare volutamente disinvolto raccolse i cocci dal pavimento e li diede alla cameriera che subito si era precipitata per sistemare quel disastro. Anche se la signorina non aveva ben capito che il disastro le stava in realtà parlando e che non lo avrebbe trovato tra la ceramica in pezzi. Prese la borsa, i quaderni e i suoi fogli svolazzanti e sparì tirandosi dietro la porta. “Una ragazza come tante altre” avranno pensato tutte le persone sedute nello stesso locale insieme a me. Ma non io. Non ero così sprovveduto da poter credere di aver incontrato quella creatura per puro caso. Quando si ha la possibilità di incrociare il destino di chi fa molto rumore bisogna ascoltarlo.

Andai a lavorare quel giorno e la mia vita continuò come al solito. La routine mangiava le mie giornate e le cose nell’ultimo periodo non andavano molto bene. Avevo bisogno di staccare e di rivolgere la mia attenzione verso qualcosa di nuovo. Ben presto mi resi conto che era lei il mio nuovo, anche se non aveva fatto niente di così eclatante. Eppure non c’era giorno in cui non mi chiedessi cosa stesse facendo, non c’era giorno in cui non mi andassi a sedere in quel caffè per aspettare il suo arrivo e per vederla nuovamente rompere una tazza del locale e tutto il mio mondo. E ridurlo a brandelli. Non si fece attendere ancora per molto; dopo tanta agonia ricomparve. Aveva tagliato i capelli, un taglio molto corto. Chissà perché lo aveva fatto. Chissà perché aveva stravolto così i suoi capelli. Chissà cosa era successo nel suo mondo sottosopra. Seduta al solito posto non l’ho vista più uguale. Era successo qualcosa. Stava lì a guardare fuori dalla vetrina, scriveva qualcosa e guardava fuori. Avrei voluto alzarmi e sedermi al suo tavolo e chiederle apertamente cosa l’avesse sconvolta dall’ultima volta in cui la vidi, ma non avrei potuto farlo. Avrebbe pensato che stavo ore a fissarla, avrebbe pensato che magari la seguivo sotto casa, ammesso che ne avesse una. Avrebbe pensato chissà quali cose orribili su di me, ma io volevo solamente conoscerla. Volevo solamente diventare un tassello importante della sua vita perché il suo modo di essere mi affascinava e mi rendeva per certi aspetti diverso, strano e più sicuro di me. Più sereno. Guardarla mi dava la pace e lei non lo sapeva. In questo frangente notai il suo piccolo vizietto di mordicchiarsi leggermente le labbra nei momenti di stress. Era così dolce quando si crucciava. Quando aveva i pensieri in subbuglio. Quando scriveva nel suo diario pieno di segreti sicuramente inconfessabili. Rimase delle ore in quel locale; e anche io. Improvvisamente sgranò gli occhi e si alzò. Sembrava quasi avesse avuto una visione. Anche io volevo vedere quello che i suoi occhi vedevano.

Pagò il suo cappuccino, il suo croissant e filò via. Anche io pagai e uscii. Erano passati appena dieci secondi, la persi di vista. Per un attimo pensai che si fosse nascosta perché aveva capito che la stessi seguendo ma non poteva essere perché ero sicuro di aver usato tutta l’accortezza possibile per tenere d’occhio ogni suo singolo movimento senza essere scoperto. Il cuore mi stava uscendo via dal petto. L’avevo persa di vista. Mi misi il cappello e con assoluta indifferenza andai a lavorare. Avevo perso un’altra occasione. Lei era l’emblema di quella che era stata fino a quel momento la mia vita: una continua corsa in cerca della felicità, che puntualmente scivolava via dalle mie dita. Per un soffio. Con lei era accaduta la stessa cosa: quando stavo per prenderla, mi sfuggiva. Quando stavo per essere felice, ripiombavo nel buio.

Giulia Magnasco

To be continued

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