Mi chiamava Gippetta

Mi chiamava Gippetta

Pinocchio ci fa uguali! È quasi impossibile che qualcuno affermi di non conoscerlo, di non aver mai letto questo magico libro, di non aver ascoltato, durante la propria  infanzia, la storia del burattino bugiardo e irriverente il cui naso cresce o si ritira a fronte di affermazioni false o veritiere. Non ricordo quando l’ho letto o la sua storia mi è stata raccontata, mentre invece, il soprannome che in famiglia si dava a Donna Lina faceva riferimento al libro di Collodi. Di lei, infatti, dicevamo che, come l’omino di Pinocchio, era più larga che alta. Per tale ragione, questo bizzarro omino, della cui presenza nel famoso libro non ho mai avuto riscontro, fa parte di quel tempo vissuto e inevitabilmente risucchiato nella bolla fragile della memoria più lontana. Ma lei, Donna Lina, ha un posto in prima fila nel mio cuore; lei mi chiamava “Gippetta “.

Di prima mattina, scendendo dalle Pecorarelle, che erano in quel tempo lontano, la parte di Valdesi abitata dai poveri, si fermava davanti la casa dei miei giovanissimi e bizzarri genitori. “Gippetta” chiamava e mia madre si precipitava a depositarmi nella grande borsa di paglia di Donna Lina per rientrare e riprendere il suo sonno. Anche se avevo solo pochi mesi, dentro quella cesta, sono sicura che sentivo che la mia giornata gioiosa ed eccitante stava per iniziare. Lanciava il suo Gippetta davanti la casa dove ero venuta al mondo,  su un vecchio tavolo da cucina; partorita da una giovanissima, incosciente ventenne che, nelle dodici ore precedenti il parto, aveva voracemente divorato chili di “ crozzitelle”. Chissà, forse per esorcizzare la paura per quel dolorosissimo momento in cui la creatura concepita assieme al giovanissimo e non meno incosciente istriano, le sarebbe schizzata fuori dall’enorme pancione!

Gippetta continuava a gridare Donna Lina, reggendo la borsa di paglia dentro la quale mi avrebbe trasportata da via Nausicaa al Viale delle Sirene.

Al numero quindici di questa strada ogni mattina andava ad aiutare la mia nonna a ripulire, stirare, lavare i piatti,  spazzare il giardino nel piccolo castelletto acquistato da pochi mesi dal nonno. Vi vivevano tutti insieme, oltre ai nonni  gli zii Gianna e Ino e la Nonna Vecchia.

Le badanti erano ancora là da venire per cui per mio nonno era stato naturale accogliere la suocera rimasta vedova: la mia adorata Nonna Vecchia!

Gippetta era il richiamo che anche i miei genitori accoglievano come una liberazione dopo una nottata in cui avevano dormito a singhiozzo. La scoperta da parte mia di un buchino a ricciolo al centro della pancina mi aveva causato pianti isterici e, solo dopo che mamma e papà mi avevano mostrato i buchi al centro delle loro pance, mi ero calmata: avevo scoperto l’ombelico!

Assonnata e con gioia, mia madre mi depositava nel cestone di Donna Lina per riprendere a dormire o magari a fare l’amore. Mi avrebbero rivisto la sera quando,  finito di lavorare, la mia dolce Tata sarebbe rientrata nella sua modesta ma pulitissima casa, alle Pecorarelle.

Le Pecorarelle,  come già detto, erano la zona più poveri Valdesi che, in quel periodo,  si divideva in tre aree abitative: quella più lussuosa con le ville Liberty, abitate solo nel periodo estivo; il vecchio paesino degli indigeni corrispondente alla Via delle Saline e dintorni e le Pecorarelle, area dove tra stalle e campagne vivevano i poveri.

Donna Lina era la povera più ricca della mia infanzia!

Sarà pure stata bassa o alta come l’omino di Pinocchio ( non più di un metro e quaranta) ma la forza con cui affrontava la vita dura che il caso le aveva destinato, la grande professionalità che metteva in campo nello svolgere i lavori domestici  e l’infinita dolcezza e l’amore che mi ha donato, fanno di lei una superba, fiera, rara, Grande Donna.

Donna Lina con le sue sole forze, con instancabile impegno quotidiano manteneva tutta la famiglia: il marito inattivo per motivi di salute trovava compagnia e consolazione nel vino; il figlio, che lei stessa definiva “sverso”, incapace di svolgere un lavoro continuativo; ed una bellissima bambina della mia età alla quale invidiavo il colore degli occhi  azzurro come il mare di Mondello e luminoso come quelli della sua mamma.

Donna Lina aveva inventato il mio box: una grande bagneruola dove, con gioia, passavo le mie giornate giocando con cucchiai, pentole e coperchi.

Quando Donna Lina è entrata nella mia vita, o più esattamente quando io ho iniziato a far parte della sua, lei aveva appena quaranta anni ma i suoi capelli li ricordo sempre di un candido bianco!

Quando è nato mio figlio la mia adorata Tata ( era finalmente in pensione e si godeva l’ultima parte della sua vita in una Linda e profumata casetta  sempre alle Pecorarelle diventate ormai zona di residenza anche della piccola borghesia locale) è venuta a trovarmi con un bellissimo bracciale d’oro.

Qualche anno dopo ha festeggiato con i suoi cari e gli amici più vicini i suoi ottanta anni: una grande cena a Mondello Paese!

Donna Lina quel giorno era, forse per la prima volta, andata dal parrucchiere e i suoi capelli erano di un delicato azzurro: la fata della mia vita

Luciana Zarini

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