Bellevue
Lo sguardo verso l’alto inquadrava la resa, squarciata dai dossi tesi. Scese, con slancio atletico, dal piano riservato alle eversioni temporali, sul primo asfalto disponibile e cominciò a correre. Le narici ravvicinate, gli occhi come baccelli ricevevano sussulti partecipativi dalla velocità vertiginosa delle gambe, in accelerazione sempre più rovente. I lacci delle scarpe si scioglievano nei tratti di un rallenty, per sussidio di invisibili libellule, rilanciando la gomma verso l’alto a colpire la schiena, nemmeno sfiorata, da un carico doppio ricaduto a sostare. Saltava scale, fossati, laghi rossi e mele di carillon, stracci di calendari, pronunce bretoni e chiome di Botticelli. La strada non feriva le sue impronte, la spinta degli avambracci pretendeva la meta, irriconoscibile come il primo sorriso, ma non occorreva arrivare fin lì. Bastava un segnale, fra arterie templi campane e grotte, dimenticanze che si appuntavano un perdono, volti fra le mani a contenere il pianto, tendaggi da schivare, poltiglie barocche e cartonati che retrocedevano da soli, per imboccare il lungomare della memoria. Aveva tre anni e camminava su piedini audaci e inesperti, superando in pochi centimetri chilometri di costa ai bordi del mare distante. Da lì il tempo valicava le misure. Con lo sguardo al futuro un piccolo soffio diventava un bacio di buon compleanno. Per Marco Bel.