Una visionaria cassiera

Una visionaria cassiera

“Ecco a lei Signora”. Non lo diceva, il dialogo era mentale. Quelli che valevano erano i gesti, impegnati nei tempi di uno scambio di banconote. Finte, come l’intero vano della cassa, origine e meta di una addetta ai pagamenti tutta speciale. Prendeva quattro cinque rettangoli di carta da un contenitore di cartone, già passato dal frigorifero e in disuso dall’ultima frittata con le zucchine, la cattedrale eponima di un ripiano di legno ecrù, assemblato a una toelettina all’ombra della sua dimensione originale. I sei vani dei tuorli e il grande coperchio di tutti, spalancato a fianco fino a sfiorare la piccola superficie prescelta, contenevano l’antefatto di ogni scambio di cortesie fra chi apriva la borsetta e chi di fronte il cassettino appena sotto la base di lavoro di quello store in ipotesi. Inesistente intorno, non si sa com’era fatto. Era solo visibile, come un lascito di Cinecittà, l’archibugio essenziale dei tasti suonati fino al drin, con apertura automatica del cassettino. Il prezzo richiesto finiva al sicuro, e il resto, svincolato meticolosamente da mani veloci alla conta sotto lo sguardo algebrico, tornava nel cartone grigiastro, a riattivare il passaggio di una nuova stessa cliente e le premure di una visionaria cassiera. La guardava negli occhi, pigiava numeri sul piccolo desk e arrivava il suo grande momento nel distinguere la cifra dell’acquisto e quante larghe fettuccine di carta pareggiassero gli eccessi. Una Olivetti storica suggeriva il rumore dei piccoli parallelepipedi di una cassa vera, da una postazione distante, rispetto a quel metro quadro dell’invenzione del prendere per restituire. Dalla cucina le avvisaglie saporite di un minestrone di tanta verdura “capata”, durante il pieno dell’attività commerciale, avvertivano che era ora di chiudere. Tutto spariva e chissà cosa aveva comprato quella Signora. 

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Cristina Picciotto

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