L’accumulo

L’accumulo

       “Tramontomalinconico”. Lo spazio tutto è suo, dalle cose alla natura, lui stesso è lo spazio nella visibilità cangiante di terre nutrite e fruttate, riprese dalla camera solare nelle diverse ore di una giornata qualunque, che è la fissità di un tempo sempre uguale, ripetuto, instancabilmente lo stesso, conservativo di raccolti, mai soggetti a diminuzione. Disteso come una grande onnicomprensiva inglobante zolla il padrone di un paese intero si fa tempo, del lavoro di anonimi malpagati braccianti, di pause pranzo, primordiali agresti varianti di ciotole aziendali, aspettativa massima di poveri uomini e povere donne. Si chiama Mazarò, tempo assoluto della sua esistenza, bastevole a se stessa. Un viandante, un occhio di passaggio, fuori da questa cinematografia dell’avere, può accorgersi dell’iperbolica descrizione della quantità che Giovanni Verga, per delega di una voce narrante, fuori campo per i campi, produce, immaginifico del reale. Anni ’80 dell’Ottocento. Non l’industria, la tecnologia, le banche online, il ritorno imperante delle immagini nelle sofisticate caverne in rete, la fine delle ideologie, il capitalismo e i suoi post che sempre di denaro sanno. Che si accreditano senza sforzo responsabilità sulle camuffate solitudini, infelicità, sbalzi valoriali di molti. Ma l’antico scenario di una comunità che vive di rus, terra. Genuino, buono, originario, bio senza etichetta o troppo costoso. I racconti di campagne¸ Le novelle rusticane si appostano attorno alla roba, la scrutano dalle fatiche per la sua conquista da parte di chi mira a contrapporsi agli altri, distanziarsi dalla comunità. Mazarò, l’innamorato della roba, aveva fame quand’era contadino; mangia anche meno e in modalità fast food, in piedi di fretta, una volta grande proprietario terriero. Nessun gusto affinato cercato percepito. Non sente la mancanza di presenze umane attorno a sé e nei suoi pensieri, non le ama. In fedele unione alle cose, è loro spirito vitale, l’on del loro permanere, l’off dell’estinguersi. Avere comprare sottrarre agli altri sono la direzione e l’eccesso, la misura e la dis-misura. Ammassate unità rimodulano nell’accumulo la spinta e l’orizzonte, spersonalizzante insignificanza di ogni piccola o grande cosa in sé. La corsa vorace a possedere e l’autoinferto supplizio di Tantalo a non toccare, gustare, rinnegare fame e sete. Il consumismo del non consumo. Ridere, passeggiare, cenare, parlare con l’altro, sentirne la mancanza, cercarlo, oro di conquista di ogni giorno non sono il lieto fine o la finalità relazionale dei Mazarò di ogni tempo. La roba è storia delle dottrine dell’accumulo, ripulita, per i viandanti di questa giornata, dalle collaborazioni appariscenti della modernità. L’elogio del poco, dell’effimero, dell’attesa del suo ritorno passano da questo flusso verghiano delle possibilità letterarie, all’ascolto della lezione di Massimo Recalcati a Milano, che torna sempre nuovo e atteso, sulla leva socratica della tensione verso l’altro come cura radice sogno di una vita che sa di vita, innamorata e innamorabile.

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Cristina Picciotto

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