La gita a Piano Battaglia

La gita a Piano Battaglia


Negli anni avanti Covid a febbraio le scuole secondarie di primo e secondo
grado organizzavano la gita a Piano Battaglia. L’evento era atteso e
invocato da noi ragazzini degli anni Ottanta che nei giorni precedenti la
gita dovevamo racimolare un abbigliamento che fosse il più adeguato
possibile, per destinazione d’uso e per taglia, alle acrobazie sulla neve.
Così la zia ci prestava i guanti, la vicina di casa i doposci, l’amica la
salopette; tutto rigorosamente di colori, dimensioni, marche e stili molto
lontani e fantasiosi, ma non importava, allora l’outfit non era ancora una
priorità e il fine giustificava l’accozzaglia approssimativa. La settimana
bianca non era ancora una consuetudine delle famiglie borghesi, il nostro
appuntamento con la neve rientrava esclusivamente in quella parentesi di
un giorno incorniciato tra la scomodità dell’abbigliamento, il pullman
gremito di adolescenti urlanti le recenti canzoni di Sanremo e la nausea
del viaggio.
La partenza era programmata per le sette, così le auto dei genitori dei
gitanti gremivano la strada della scuola, gli insegnanti accompagnatori
accoglievano i ragazzini muniti di zaini sul pullman. Il pranzo al sacco
prevedeva di tutto: dal panino con la frittata o la cotoletta o il prosciutto
ai cipster, le patatine, i wafer, le tavolette di cioccolato, i Ringo, le mele e
le banane, i Kinder e le bevande varie. Però, una volta saliti sul pullman e
intrapreso il viaggio era arduo restare indifferenti a tutte quelle bontà,
così noi gitanti cominciavamo a consumare timidamente qualcosa e al
primo tornante di montagna debuttavano i primi mal di pancia con
conseguente e immediata liberazione dello stomaco.
Subito dopo i professori riassegnavano i posti a sedere per evitare nuovi e
ulteriori inconvenienti, collocavano i delicati nei primi posti, vietavano agli
altri di consumare e bere ancora altre vettovaglie per arrivare finalmente
sani e salvi alla meta. Tra una canzone e l’altra, qualche rimprovero ai più
turbolenti seduti in fondo al pullman, qualche lite per la musica da
scegliere e polemiche sui cantanti in voga, l’allegra brigata giungeva a
Piano Battaglia.

Una volta allentata la stretta della sorveglianza, noi gitanti ci dividevamo
in gruppetti disperdendoci in ogni dove; i più pericolosi, mi sembra di
vederli, tiravano fuori le munizioni fatte di sacchetti di plastica nera taglia
XL da usare come slittini per discese veloci ed elettrizzanti, altri
passeggiavano, altri tentavano di ostacolare con mezzi di fortuna il
percorso dei sacchettari. I poveri professori, avevano avuto appena il
tempo di sorseggiare un caffè caldo dopo il faticoso viaggio, quando
venivano richiamati dalla vista terrorizzata degli alunni che sfrecciavano
divertiti puntando qualche vittima innocente che stavano per colpire col
peso del loro corpo lanciato col sacchetto a velocità sostenuta giù per la
valle. A quel punto gli allarmati accompagnatori ci richiamavano per
stabilire le regole della giornata, minacciando una telefonata dalla cabina
del rifugio ai genitori, i sacchetti venivano sequestrati e veniva ribadito lo
scopo della gita: il confronto, la socializzazione e l’osservazione del
paesaggio, non il ferimento dei compagni e l’uccisione dei rivali dell’altra
sezione!
Nel primo pomeriggio ci si avviava lungo la strada del ritorno, gli zaini
erano stati svuotati, i più vivaci erano stanchi e sudati e si apprestavano a
concludere in bellezza la giornata, ma i professori subodorando il pericolo
ordivano un discorso di fine gita, sollecitando pensieri, riflessioni e
osservazioni che creavano un clima piacevole di condivisione e
verbalizzazione delle nostre emozioni. Intanto gli scalmanati deponevano
le armi, si ricomponevano e magari schiacciavano un doveroso sonnellino.
Alle diciannove circa rientravamo, i genitori erano fermi ad aspettarci
chiacchierando lungo la strada buia, avevano le facce sorridenti alla vista
dei pargoli, tanto quanto i poveri professori al momento dell’arrivo e
dopo l’avvenuta consegna!

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Alessia Machì

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