Il caffè migliore
Davvero non le interessava il caffè. Ma la strada sembrava esistere solo per quella ragione, mentre tutto il resto era rapido e accennato come un panorama lasciato da un treno, senza passanti per caso o per abitudine in una giornata qualunque.
Accanto a qualche vetrina altrettanto allestita dal nulla, figuranti ingabbiati da una posa, avulsi da un’azione. La prospettiva dello sguardo stava rialzata su una pedana di marmo, e si vedevano due entrate sul lato destro, una dopo l’altra.
La seconda per distanza, raggiunta per visita inconsapevole, aveva interni hi tech, luci forti, il caffè scorreva come se fosse ossigeno, non c’erano tazze, polsini avvicinati alla bocca, sorsi ed espressioni di gusto. Eh no, il posto migliore era l’altro, con i banconi all’antica, i camerieri gentili e lì sì, il caffè era buono. Bisognava tornare indietro, di qualche metro e chissà quanti giorni.
Ma lei non era lì per il caffè. Sapeva che quel percorso lungo sarebbe finito, cancellato fuor di preavviso. Allora restava su quel quadrato sopra tutto, sopra tutti, al piano del vuoto, persistente, non cedibile a sottrazioni repentine, generoso di sogni, immagini, senza limiti, sempre quello. Voltarsi un attimo non era ricordare, era attendere di essere presa per mano, via da lì, ovunque.