Fiore de poi
Il mercato del mattino ha una porta immaginaria, configurata da un banchetto sbiadito, tendente al grigio, appena bianco sui contorni; una sediolina di paglia e la sua custode, lì da generazioni, sveglia prima degli altri, per il suo lavoro trasversale al tempo, cominciato negli anni dei colori e tenace a mantenersi ineguagliabile. Pallida, occhi dolci e fermi fra rughe parallele, il sorriso risolto dalla compostezza. Meticolosa, precisa, attenta, a porgere e risistemare in bella posa con pochi delicati passaggi i suoi mazzetti di odori sul ripiano. Piccoli, minimi, nemmeno tantissimi, tornano di uguale numero ad ogni vendita. Basilico prezzemolo e altre foglioline da cucina, per gli incassi che suonano spicci nella scatola di legno a scomparti, troppo grande per quell’orto in miniatura, ma universale tesoriere in tutte le altre bancarelle dei frutti di stagione che si susseguono per il lungo corridoio che è il mercato di Roma. Sempre con il sole alto, a illuminare la spesa che si può scegliere con le mani. “Lo prenda signò!”. “Italo, che me ne fai du chili?” “Vedrai che te magni”. Fiori di zucca, pesche, puntarelle, cicoria, rendevano unico questo palco a cielo aperto, lentamente assorbito dai non luoghi della globalizzazione, trasformato, trasferito. Negli anni e nelle memorie. Vorrei quel banchetto, il tesoro del poco scartato dal mito, allestirlo quando il sole fa due passi nei tramonti azzurrini, senza portare le chiavi di casa. Vendo ai passanti dell’estate le collanine delle mie prime speranze, sempre prime, anche se di seguito alle altre. Farò un prezzo per volta, separato dal resto, per il mercato della vaneggiata libertà. Abile trasformista dell’insistenza di quello che non passa, intellettuale basilico che torna ad aprire il giorno.