Fessure di luce
Quando ero bambina capitava spesso che restassi a dormire a casa dei nonni materni, dove le attenzioni erano esclusivamente mie e i dolci e le creme golose non mancavano mai.
La loro stanza da letto dava su una strada e dalle fessure della serranda la sera filtrava la luce dei lampioni che si rifletteva anche sulla tenda bianca e la parete di fronte. Erano strisce di luce allungate e mobili che mi affascinavano, erano la linea di demarcazione tra la vita esterna: accesa, movimentata, rumorosa, frenetica e la penombra silenziosa e ovattata di quella camera che odorava di nicotina e sapone di Marsiglia con la “tolettina” e le spazzole d’argento poggiate sopra.
Osservare quelle strisce significava nutrire l’immaginazione, già abbastanza fervida, di vicende, visi e luoghi sconosciuti che popolavano e animavano l’esterno del mondo e che aspettavano trepidanti di essere vissuti da me in un futuro forse lontano o probabilmente prossimo, in cui sarei stata la protagonista di avventure seguite nei film degli anni 70/80 dove le buone azioni trionfavano sempre sconfiggendo i cattivi e i malintenzionati.
Quelle storie ruotavano sempre attorno alla figura di un protagonista/eroe dal multiforme ingegno che armato di coraggio e astuzia riconduceva tutto al lieto fine e al riconoscimento da parte di tutti delle sue incontestabili abilità. Ecco quell’eroe, allora soltanto maschile, ero io in gonnella!
Poi piombavo in un sonno beato e profondissimo e l’indomani avrei trovato sul tavolo della cucina una tazza fumante di latte e caffè e un tovagliolo aperto con il pane spezzettato per la zuppetta o una generosa fetta di torta di biancomangiare e biscotti.
Mai avrei immaginato allora che un giorno qualcuno mi avrebbe parlato del valore inestimabile della luce che proviene da una strada di città quando vivi da recluso e quella luce ti riporta alla vita.
I quadretti di orizzonte di una cella che dà sulla strada rivestono, per chi li vive, un’importanza nettamente superiore di una cella che dà sul verde o su un cortile.
Sono pagine di quotidiano che collegano al mondo esterno, sono pennellate di asfalto che traghettano al vissuto, ai gesti consueti di giorni di libertà, ai movimenti noti di rituali e abitudini.
Nella solitudine della libertà negata, riconoscere in una macchina che passa per strada la domenica mattina i capricci dei bambini, la musica alla radio, il mare che sbuca all’orizzonte e il bello spesso e tanto sottovalutato è una promessa di vita, è un laccio di sensazioni che unisce e alleggerisce una catena di colpa e riscatto.
Perché il nostro breve e tormentato passaggio su questo triangolino sospeso tra terra e cielo si gioca spesso tra un dentro e un fuori, tra l’anima e il mondo, l’interno e l’esterno, il noto e l’ignoto, il codice privato e quello pubblico.
La luce è portatrice sana di vita e speranza, che sia una fessura, un quadrato, un paesaggio chiaro e bellissimo, ci rende sempre attori liberi di racconti a lieto fine e ci fa naufragare gioiosamente senza limiti temporali e materiali attraverso il ponte dell’immaginazione.
E gli occhi sognanti dell’infanzia rivivono ogni volta che il presente diviene buio e asfissiante, attraverso una fessura di luce e la chiave colorata della fantasia, disegnano pagine di felicità e muovono pedine inimmaginabili nel gioco facile dell’irrealtà abbattendo il muro di zucchero filato che separa ciò che siamo da ciò che vorremmo essere.