Chiostri e in-chiostri

Chiostri e in-chiostri

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Anna amava da sempre cercare chiostri nascosti, che nessuno conosceva, in giro per la città; le sembravano delle piccole oasi astratte dal caos. Luoghi recintati dallo spazio circostante dove aveva la sensazione che il tempo non esistesse.

Andava soprattutto quando le giornate erano assolate, perché le piacevano i giochi di luce e ombra che si formavano sotto i porticati: i semicerchi perfettamente delineati, i labirinti di cespugli e rose che la facevano sentire in una reggia in miniatura.

Adorava l’idea che, da qualsiasi finestra ci si affacciasse, si potesse vedere il centro, come se si fosse costantemente immersi dentro ad un vaso e che, da sotto, ogni finestra le sembrasse uno specchio pronto a restituirle un pezzetto di sé. Disegnava “en plein air”.

Era una studentessa dell’accademia di belle arti da circa tre anni e, a fatica, aveva fatto molta strada fino a quel momento. Non era stata sostenuta dalla propria famiglia, perché la sua passione per l’arte veniva costantemente sottovalutata e considerata un capriccio passeggero, uno di quelli che provano a seguire le mode che portano ad uno scarso successo. Per lei non era così. Da quando ne aveva memoria adorava le valigette piene di matite e pennarelli, le progressioni cromatiche le davano una soddisfazione nuova, sempre diversa. Aveva iniziato a sfoggiare inconsapevolmente le prime doti alle scuole medie, durante le lezioni di disegno in classe: era l’unica tra i compagni ad apprezzare con sincera spontaneità quell’ora di libertà creativa.

Riusciva ad essere versatile e precisa in qualsiasi compito l’insegnante assegnasse e fu proprio lei a consigliarle di proseguire in questo percorso. Anna per la prima volta sentiva di essere amata per quello che ancora non era o che forse non sarebbe mai diventata. Con tenacia aveva proseguito negli studi, diplomandosi e dopo iscrivendosi all’accademia. Dovette rinunciare all’approvazione della propria famiglia che la vide trasferirsi a Firenze senza alcun rimorso; solo con molta rabbia per averla fatta partire con la sensazione di essere un’orfana di acqua e di cielo.

Chissà perché, ogni attimo prima di poggiare la punta della matita su un foglio, le si palesava nella mente tutto ciò che le era accaduto, come se quella moviola del suo passato le servisse per concretizzare il presente nella propria arte. Partiva con i contorni più esterni, una bozza della linea sottile che contiene i colori delle cose del mondo; le tegole dei tetti, i ghirigori intorno alle finestre.

Gli alberi e le piante le risultavano ancora un po’ complicati, allora cancellava più e più volte fino a quando non raggiungeva un risultato che si avvicinasse alla bellezza della natura. Dopodiché proseguiva con la scelta delle tonalità dei colori e ne mischiava le componenti per crearne altri.

Aveva una predilezione per la delicatezza e l’inconsistenza degli acquerelli; rappresentavano il suo modo di essere: lasciavano il segno senza nessuna invadenza per gli occhi. Le colonne perfettamente nella loro prospettiva univano le sinuosità degli archi che incorniciavano stralci di cielo azzurro.

Il blu era da sempre stato il suo colore preferito: non sapeva dire perché. Ricordò di quella volta in cui si trovava in classe e la sua insegnante scrisse alla lavagna la seguente domanda: “Qual è il vostro colore della gioia?”. “Ma che domanda è?” pensò. “Come si può chiedere una cosa così banale… Il colore della gioia è il proprio colore preferito no? No, forse no… Cosa intende per colore della gioia?”.

Più la domanda le sembrava assurda e più si arrovellava sulla risposta da dare. In quel momento, in quel chiostro, ricordò di aver lasciato il foglio in bianco anni prima. Quando finì di disegnare raccolse la sua strumentazione e tornò verso casa dopo aver ammirato quelle geometrie per un’ultima volta. Mentre camminava sorrideva; sorrideva perché le era sempre più chiara la risposta a quella domanda fattale tanti anni fa, della quale non aveva capito il senso pieno.

Sorrideva perché il colore della gioia, per lei, è quello che non si dimentica.

Giulia Magnasco

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