La Fata Kappa
La cucina era territorio off limits, allontanato da distanze q.b. su sentieri immaginifici dagli altri habitat della casa. Affluivano, all’ora nascosta dai quadranti dei desideri, nel laboratorio della tournée svavillattesa, messa su dalla Fata Kappa. Avvolta nel mantello agguantato dal cielo, scivolava da un tubo sormontato da un tetto, di solito spiovente su fornelli pentole e pietanze o le meritate pause di fiamme e manopole. Allestiva le tracce del suo passaggio delle 5, mentre la residua pazienza del buio addolciva di sonno i cuscini. Firma e dedica scritte di blu sul vassoio di cartone trovato lì per caso. Dai bignè ai biscotti passava ora sulle piastrelle predilette da vapori profumi e sughi assaggiati col pane, display a inchiostro dell’avvenuto atterraggio. Affidato a un trafiletto di stoffa, adagiava sul bordo della macchina dei cuochi un colorato panno sgomitante di bon bon caramelle croccantini monete di cioccolata mandorle e zucchero. Apriva la porta di casa e al suo sguardo si accovacciavano sul proprio rigoglioso tesoro di scatole e pacchetti le sacche di robusta plastica rosa e azzurra, rilasciate al suo arrivo dai corrieri del Banco dell’Isola. Giocattoli, per una casa in miniatura, da raggiungere o lasciare, facendo squillare campanellini. Sentirsi attesi dall’attesa del mattino era il regalo dei regali, da scartare per le nuove stanze dei giochi infiniti, dei segni del futuro. La cometa bionda si svegliava di nuovo, questa volta per finta, preparava latte e disponeva tazze. Il quartier generale del suo segreto indicibile era pronto. Guardava le stelle sul sipario del giorno, scendevano infanzie. Brillava, come foglia d’oriente.